Comunicato solidale dagli studenti di Scienze Politiche di Milano

ANDIAMO IN GUERRA

Negli ultimi decenni si è rinnovata la tendenza all’interventismo militare occidental-europeo, a farne le spese sono i territori non totalmente invasi dal mercato monopolista occidentale. Questa tendenza alla guerra vede l’Italia impegnata in prima fila, anche per quanto riguarda il dispiego di forze militari e armamenti.

Dagli anni 90 ad oggi infatti il MISE (Ministero dello Sviluppo Economico) ha stanziato più di 50 miliardi di euro a favore dell’industria bellica italiana: beneficiare di questi spropositati investimenti pubblici sono aziende leader nell’industria militare come Finmeccanica, Fincantieri, Fiat-Iveco, Oto-Melara, ecc.

Nel biennio 2016/2017 il governo italiano ha stanziato più di 15 miliardi di euro per l’acquisto di cacciabombardieri F-35 e circa 2,75 miliardi destinati dal MISE a Finmeccanica e alle altre aziende dell’industria bellica.

Inoltre l’Italia, in quanto paese NATO, ha espresso la sua volontà di portare la propria spesa militare al 2% del PIL nazionale nel corso dell’anno 2017. Questo significa raggiungere una spesa militare che ammonta a 64 milioni di euro al giorno, ovvero 2,7 milioni all’ora e 4,5 mila al minuto.

Come se non bastassero questi dati in merito alle spese militari italiane, il finanziamento per il rinnovamento degli armamenti ammonta a 3,2 miliardi di euro. Per renderci meglio conto dell’ingente investimento pubblico in ambito militare, basta fare un parallelo con il diritto allo studio: l’investimento statale in ambito universitario è solo dell’1,0% del Pil.

Questi ingenti costi evidenziano il ruolo centrale dell’Italia sul fronte della guerra internazionale, sottolineando il suo impegno bellico sia a livello individuale sia come membro ONU, NATO e UE in numerosi scenari sensibili come Kosovo, Mali, Somalia, Libano, Afghanistan (più di 700 militari), Libia, Ucraina e Iraq.

Proprio questo ultimo paese è quello che vede maggiormente impiegate le forze militari italiane. Infatti l’Italia è presente sul territorio iracheno con più di 700 unità, risultando in questo modo la seconda forza militare in Iraq, dopo quella americana.

In totale si stima che i soldati italiani impegnati in missioni militari internazionali ammontino a più di 7000, facendo così dell’Italia uno dei paesi più attivi sul fronte militarista ed interventista.

Questo spiegamento di forze si sostanzia in vari ambiti, tra cui quello universitario.

Nelle università di area scientifica, guerra e ricerca sono un tutt’uno: la ricerca universitaria è subordinata agli interessi militari, come dimostrano i numerosi accordi tra le università italiane e la produzione/sperimentazione di tecnologica militare. Esempi di questa collaborazione tra Università e industria bellica sono gli accordi tra il Politecnico di Torino e il Technion di Israele, quelli recenti tra il Politecnico di Milano e Leonardo-Finmeccanica e gli accordi tra il Sant’Anna di Pisa e Oto-Melara (principalmente per lo sviluppo di droni).

Anche all’interno delle Università di indirizzo umanistico il tema della guerra è ugualmente presente. All’interno di queste università, in particolar modo quelle di indirizzo politico come la nostra, avviene una costante legittimazione ideologica e culturale della guerra attraverso le giustificazioni partorite dalle “menti” che siedono dietro le cattedre delle nostre facoltà. Infatti, dietro a formule quali “scontro di civiltà”, “fermiamo la barbarie” o “esportiamo democrazia”, si maschera la legittimazione istituzionale dell’interventismo militare, spacciato per azione umanitaria o di peacekeeping.

Basti pensare alle innumerevoli affermazioni del professor Panebianco sulla guerra. Il professore di “Sistemi internazionali comparati” dell’Alma mater studiorum di Bologna presso la Facoltà di Scienze politiche, scrive, durante la guerra in Iraq, un suo editoriale sul Corriere della Sera (“Il compromesso necessario” del 13 agosto 2006) in cui sostiene “che si deve accettare per forza un compromesso, riconoscere che, quando è in gioco la sopravvivenza della comunità (a cominciare dalla vita dei suoi membri), deve essere ammessa l’esistenza di una «zona grigia», a cavallo tra legalità e illegalità, dove gli operatori della sicurezza possano agire per sventare le minacce più gravi” giustificando l’uso della tortura.

Per il 28 Aprile in Sardegna, dove esiste un forte movimento antimilitarista che attraverso manifestazioni, azioni dirette e sabotaggi riesce a fermare sia la produzione-sperimentazione di armamenti, sia le numerose esercitazioni militari sul territorio, è stata chiamata una giornata di mobilitazione contro la guerra.

20 APRILE h.14.00 @ Spazio Occupato di Scienze Politiche via Conservatorio n. 7: Assemblea Pubblica per discutere e confrontarci.

28 APRILE: GIORNATA DI MOBILITAZIONE NAZIONALE CONTRO LA GUERRA.

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